Crollo Ponte Morandi, ingegnere Fabio Capitini, ignorato concetto di durabilità

di Fabio Capitini, ingegnere
Crollo Ponte Morandi, ingegner Capitini, ignorato concetto di durabilità 
Di fronte all’immane tragedia di Genova, tutti ci stiamo chiedendo come sia possibile che una delle più importanti infrastrutture viarie del nostro Paese come il “Ponte Morandi” possa crollare improvvisamente nel giro di pochi secondi, nonostante il costante monitoraggio a cui risulta essere sottoposto. La domanda potrebbe essere: monitoraggio inadeguato oppure non ci sono ancora strumenti di diagnosi sufficientemente evoluti per scongiurare tali eventi? Ed ancora quante strutture in Italia sono a rischio Collasso?

In generale i continui crolli di ponti e viadotti sono connessi all’invecchiamento di gran parte delle opere delle strutture stradali realizzate negli anni ‘60 e ‘70, che presentano una “vita utile” superiore a 50 anni, che è il limite di durata associabile alle opere in cemento armato con le tecnologie disponibili nel secondo dopoguerra.

A tale periodo risale, infatti, la costruzione di quasi tutte le opere presenti sulla nostra rete viaria e questo è dovuto sia alla necessità di ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale sia soprattutto al forte sviluppo economico degli anni ‘60, che ha portato alla realizzazione della nuova rete stradale e autostradale.

Calcestruzzo armato e precompresso

In quell’epoca la maggior parte delle opere era realizzata in calcestruzzo armato e precompresso ed il concetto di “durabilità, inteso come la capacità di una struttura di mantenere inalterate le proprie caratteristiche nel tempo, era praticamente ignorata. Prevaleva la convinzione che il cemento armato, ordinario e precompresso, fosse inalterabile nel tempo. A partire dagli anni ’80, con una ovvia progressione crescente dato l’invecchiamento delle opere, si è evidenziato come tali strutture siano soggette a stati di degrado che ne limitano la durabilità compromettendone le caratteristiche fisiche e meccaniche, sia per cause tipiche al materiale che per cause esterne “ambientali”.

Nel caso di cemento armato precompresso, merita un’attenta valutazione la tecnica di precompressione utilizzata per la realizzazione degli elementi portanti. Le tecniche utilizzate in quegli anni erano principalmente due:

  1. Metodo delle pre-tensioni (elementi realizzati in stabilimento)
  2. Metodo della post-tensione (elementi realizzati in cantiere)
Ingegner Fabio Capitini

La post-tensione era il metodo più diffuso all’epoca per la realizzazione degli elementi portanti di ponti e viadotti di grandi dimensioni, ma era anche quello con più problematiche e maggiormente soggetto pertanto a fenomeni di degrado.

Altra considerazione importante va fatta sui volumi di traffico.Tanti ponti e viadotti denotano oggi carenze strutturali e funzionali in ragione del fatto che sono stati progettati per condizioni di esercizio rese negli anni superate ed inadeguate da requisiti prestazionali sempre più gravosi, in termini sia di volume di traffico sia di sicurezza strutturale.

Tante migliaia di veicoli

Un numero sempre più elevato di veicoli transitanti, i maggiori carichi nominali per asse, la velocità crescente dei mezzi ed i conseguenti effetti dinamici generano sollecitazioni più gravose rispetto a quelle dell’epoca di progettazione. Tutto questo può generare il collasso per un fenomeno che va sotto il nome di “FATICA”, cioè la ripetizione di cicli di carico e scarico che porta ad un accumulo di deformazione plastica e nello stesso tempo una progressiva diminuzione della resistenza fino alla rottura del materiale. Il processo innescato per fatica è irreversibile e conduce la struttura ad una rottura cosiddetta“fragile”ovvero improvvisa.

Le opere esistenti risentono particolarmente di questo fenomeno, sia perché in uso da molto tempo, sia perché i carichi di esercizio per cui sono state progettate erano inferiori a quelli attuali.

Il ponte Morandi di Genova presentava tutte le suddette caratteristiche costruttive ma, data la sua importanza viaria la sua straordinaria dimensione e l’eccezionalità costruttiva, era costantemente monitorato e manutentato per rispondere alle problematiche di durabilità evidenziate nel corso degli anni, anche alla luce delle nuove conoscenze sul calcestruzzo.

Apparentemente infatti, da quello che è emerso dalle immagini televisive, non presentava evidenti segni di degrado, che caratterizzano i ponti di quell’epoca in calcestruzzo.

Cosa si può ipotizzare in merito alle cause del crollo?

Non esiste un solo motivo

Sicuramente non esiste un solo motivo, ma una serie di concause probabilmente riconducibili ad un degrado interno del sistema di precompressione degli stralli, forse non visibile e non valutabile, ed uno stress da fatica dovuto all’eccezionale mole di transito veicolare, anche pesante, che può aver trasmesso al sistema strutturale azioni dinamiche con cicli di carico e scarico tali da metterla in crisi.

E’auspicabile che le perizie che verranno svolte nei mesi a seguire riescano a stabilire con certezza le cause del crollo.

Sin da subito tuttavia si può affermare che non avendo sistemi in grado di valutare con assoluta certezza il livello del degrado dei trefoli contenuti nei cavi di precompressione sarebbe opportuno intervenire su questi tipi di strutture il prima possibile o con la sostituzione o con un profondo adeguamento.

 

Ing. Fabio Capitini

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